CORTE DI APPELLO DI ANCONA Sezione penale La Corte di appello di Ancona, nelle persone dei magistrati: dott. Giuseppe Luigi Pietro Fanuli, Presidente; dott.ssa Maria Cristina Salvia, consigliere; dott. Guido Campli, consigliere, all'udienza in camera di consiglio del 3 aprile 2015; Ha pronunciato la seguente; Ordinanza Nel procedimento penale di appello n. 488/2015 R.G.C.A. a carico di S.L., nato ad A. il - attualmente sottoposto alla misura degli arresti domiciliari in O.V. alla via G.P., avv. Andrea Bordoni di fiducia, imputato: a) del reato di cui all'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990; b) del reato di cui agli artt. 110 c.p. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, in Ancona il 18 ottobre 2013, con recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale. Premesso in fatto che, a seguito di indagini svolte dalla Squadra Mobile presso la Questura di Ancona, il P.M. presso il Tribunale di Ancona esercitava l'azione penale nei confronti di S.L. in ordine ai delitti di illecita detenzione di un chilogrammo di marijuana e di 85 grammi di cocaina. Con la recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale; che con sentenza in data 11 luglio 2014 il GUP del Tribunale di Ancona, all'esito di giudizio abbreviato, riteneva l'imputato colpevole dei reati ascrittigli, unificati ex art. 81 C.P. e concesse le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, e con la diminuente del rito lo condannava alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione ed € 24.000 di multa; che avverso detta sentenza ha interposto appello l'imputato, non contestando la riconosciuta recidiva, ma chiedendo la riduzione della pena per effetto del riconoscimento nella massima ampiezza della attenuante della collaborazione ex art. 73, settimo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990; che in questa sede l'appellante, a sostegno della richiesta della anzidetta attenuante ad effetto speciale, ha richiamato la nota del 20 marzo 2015 della Procura della Repubblica di Ancona D.D.A. e relativo allegato, attestante la completa, vasta ed incondizionata collaborazione posta in essere dal S. (anche e soprattutto) dopo la sentenza di primo grado; che all'odierna udienza, fissata per la discussione dell'impugnazione, la Corte ritiene di sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale - per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3°, della Costituzione - dell'art. 69, comma 4°, C.P., come sostituito dall'art. 3 legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, settimo comma, d.P.R. n. 309/1990 sulla recidiva di cui all'art. 99, quarto comma, C.P. Motivi Rilevanza della questione. La questione e' sicuramente rilevante nel presente giudizio in quanto, in caso di accoglimento, si dovrebbe irrogare una pena di gran lunga inferiore rispetto a quella inflitta dal primo giudice, atteso che la ampiezza ed intensita' della collaborazione prestata dall'imputato, indurrebbe a ritenere l'attenuante ad effetto speciale di cui all'art. 73, settimo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 sicuramente prevalente sulla recidiva, che si fonda su due soli precedenti, non particolarmente gravi. Del resto, e' pacifico che in tema di bilanciamento di circostanze, l'attenuante prevista dal settimo comma dell'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 non puo' essere concessa con giudizio di prevalenza rispetto alla recidiva reiterata, prevista dall'art. 99, quarto comma, C.P., giusto il disposto dell'art. 69, quarto comma, C.P., norma quest'ultima dichiarata parzialmente incostituzionale con sent. n. 251 del 2012, ma nella sola parte in cui escludeva la possibilita' di considerare prevalente l'attenuante di cui al quinto comma dell'art. 73 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 309 (Cassazione penale, sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 45903. In motivazione, la Corte ha evidenziato come la medesima Corte costituzionale, con ordinanza n. 315 del 2012, ha precisato che gli effetti della declaratoria di incostituzionalita' della sentenza n. 215 del 2012 dovessero essere circoscritti alla sola circostanza di cui al quinto comma dell'art. 73 cit.). A cio' va aggiunto che nel caso in esame non sarebbe possibile escludere la recidiva seppur facoltativa, perche' la relativa statuizione non e' stata oggetto di specifico motivo di appello da parte dell'imputato (cfr. Cassazione penale, sez. II, 3 ottobre 2013, n. 47025); e, comunque, perche' nel caso in esame le condanne gia' riportate dall'imputato, in relazione alla natura e al tempo di commissione dei reati indicano che reato sub iudice e' espressione della medesima «devianza» gia' denotata in occasione dei precedenti reati, ed e' percio' sicura manifestazione di maggior colpevolezza e pericolosita' dell'imputato. Il principio di cui all'art. 69, quarto comma, C.P., anche in considerazione del fatto che all'imputato sono state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva (escludendosi, cosi', l'aumento di pena che essa avrebbe comportato) renderebbe totalmente irrilevante l'anzidetto dato di realta', rappresentato da una condotta ampiamente collaborativa, riconducibile al paradigma di cui al ricordato settimo comma dell'art. 73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990. Non manifesta infondatezza della questione. La norma censurata - nell'ottica di cui sopra - appare, anzitutto, in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) perche' la preclusione assoluta di poter ritenere prevalente l'attenuante della collaborazione ex art. 73, settimo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 ai recidivi reiterati introduce un evidente elemento di irrazionalita' secondo lo scopo della disposizione anzidetta. Proprio sotto il profilo della ratio legis va evidenziato che l'art. 73, settimo comma, decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, unitamente all'analoga previsione contenuta nel settimo comma del successivo art. 74 (applicabile al reato di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti) configura una ipotesi di circostanza attenuante ad effetto speciale diretta a premiare e stimolare il ravvedimento post-delittuoso del responsabile. Il contributo positivo alle indagini offerto dal responsabile e' in tal modo «provocato», attraverso la prospettata «ricompensa» di un notevole abbattimento del trattamento sanzionatorio. Si e' in presenza di uno strumento contro i narcotrafficanti, mediante il quale si mira a favorire la dissociazione e la collaborazione operosa ritenute essenziali per minare alla base la compattezza e l'omerta' che caratterizzano tutte le organizzazioni criminali, anche le meno sofisticate ed articolate. In tale ottica, non solo non puo' escludersi, ma deve ritenersi molto probabile che il soggetto a cui la disposizione offre la prospettiva di un rilevante sconto di pena per sollecitarne la collaborazione, sia inserito nel mondo del narcotraffico, abbia riportato pluralita' di condanne, sia nelle condizioni di cui all'art. 99, quarto comma, C.P. Ebbene, la norma censurata non consente alla disposizione premiale di spiegare la propria efficacia proprio nei confronti del recidivo reiterato, il quale non troverebbe alcun serio vantaggio a collaborare nei sensi di cui all'art. 73, settimo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, mettendo a repentaglio la propria incolumita'. Cio' comporta una evidente vanificazione della «ratio legis» - pragmatica e utilitaristica - in contrasto con la logica del sistema che impone che anche costui possa beneficiare della riduzione della pena nella sua massima estensione, a seguito della concessione della predetta attenuante (nel caso di prevalenza della stessa ex art. 69 C.P.) in quanto la riduzione costituisce, essenzialmente, un corrispettivo della collaborazione, cui e' sinallagmaticamente legata. L'irragionevolezza della norma censurata si rileva anche nell'ottica di sistema. A tal fine, appare utile esaminare la circostanza ad effetto speciale di cui al decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che e' accomunata a quella in esame dalla identita' della ratio e si fonda, anch'essa, sul riconoscimento della proficuita' del contributo fornito dall'imputato allo sviluppo delle indagini e/o ad evitare conseguenze ulteriori dell'attivita' delittuosa (cosi', Cassazione penale, sez. II, 18 giugno 2013, n. 32645). Detta disposizione ha esteso al settore antimafia la circostanza attenuante gia' in precedenza elaborata per i fenomeni terroristici (decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, art. 4, convertito dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, ripreso dalla legge 18 febbraio 1987, n. 34, art. 2), per chi dissociandosi dagli altri, si adoperi per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l'autorita' di polizia o quella giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati. Ebbene, tale circostanza non e' soggetta al giudizio di comparazione ex art. 69 C.P., stante la obbligatorieta' dell'attenuazione della sanzione, allorche' ricorrano le condizioni per la sua applicazione e tenuto conto dell'intento primario perseguito dal legislatore, che e' quello di offrire un incentivo concreto e non meramente eventuale al «pentito» (cfr., per tutte, Cassazione penale, SS.UU. Pen., 25 febbraio 2010, n. 10713). Si tratta di disciplina derogatoria che si giustifica tenendo conto che tra la circostanza attenuante di cui al decreto-legge n. 152 del 1991, art. 8, e quella di cui al richiamato decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, art. 73, settimo comma, sussiste una significativa differenza, essendo la prima inserita nel particolarissimo contesto sistematico della disciplina del contrasto alla criminalita' di tipo mafioso; contesto nel quale la dissociazione e la collaborazione attiva acquistano peculiare rilevanza (cfr. le considerazioni espresse in Cassazione penale, sez. III, 12 giugno 2013, n. 38015). In ogni caso, prima della riforma dell'art. 69, comma 4°, C.P., per effetto dell'art. 3 legge 5 dicembre 2005, n. 251, tale trattamento differenziato era ragionevole, atteso che, comunque, al «collaboratore» ex art. 73, settimo comma, cit., anche recidivo reiterato, era offerto un incentivo concreto, essendo possibile; nel caso di giudizio di prevalenza ottenere il previsto rilevantissimo sconto di pena. Tale ragionevolezza e' venuta meno, a seguito della riforma del 2005, atteso che il recidivo reiterato non potra' mai beneficiare di tale sconto di pena. Con il che viene irragionevolmente e totalmente vanificata - nei casi rientranti nel divieto di cui all'art. 69, comma 4°, C.P. - la disposizione premiale della cui ratio si e' detto. E' ravvisabile, inoltre, la violazione del principio di proporzionalita' della pena (principalmente nella sua funzione rieducativa, ma anche in quella retributiva), di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., perche' una pena che non tenga in debito conto della proficua collaborazione prestata per effetto di una dissociazione post-delictum, spesso sofferta, e che puo' esporre a gravissimi rischi personali e familiari, da un lato non puo' correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalita' violata, dall'altro - soprattutto - non potra' mai essere sentita dal condannato come rieducatrice.